Cronaca di una morte annunciata
Il fallimento della Cop26 di Glasgow
di Giacomo Biancofiore
I media hanno dato grande risonanza alla Cop26 che si è svolta a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021. Come nel romanzo di Gabriel Garcia Marquez, nessuno fa niente prima dell’atto di violenza che, così, viene inesorabilmente consumato.
I giorni seguenti la chiusura della Conferenza, che ha visto la partecipazione di circa 40 mila addetti ai lavori provenienti da 197 Paesi (una foglia di fico plebiscitaria?), sono stati caratterizzati da opposte valutazioni circa i risultati ottenuti e le diverse sfumature si sono allocate in un intervallo che va dall’«enorme passo avanti» degli organizzatori al «vero fallimento» di Greta Thunberg.
Le mobilitazioni e gli striscioni delle centinaia di migliaia di giovani provenienti anche dalle popolazioni indigene dell'Amazzonia e dalle altre regioni dell'America Latina, dell'Asia dell’Africa sono eloquenti circa i reali risultati della Cop26, così come sono paradossali le argomentazioni utilizzate per riempire un bicchiere che è lontano dall’essere anche solo mezzo pieno.
Nessun cambio di passo
Chi, nonostante l’evidenza, vuole attribuire alla Conferenza quel cambio di passo che in tanti speravano si è affidato sostanzialmente alla «caparbietà» dei Paesi di riuscire a superare tutti gli ostacoli e mettere insieme il cosiddetto «Patto climatico» che, modificato, arrangiato e svuotato ha consentito di evitare, solo formalmente, il flop totale.
«La conferenza di Glasgow ha certificato l’emergenza climatica e ne ha ribadito la priorità globale», affermano i cercatori di ottimismo, immemori delle precedenti conferenze e soprattutto dei costanti e sempre più pesanti allarmi degli scienziati e delle strutture incaricate di monitorare le alterazioni climatiche.
Assurda è poi l’esultanza per l’accordo che decreta lo stop alla deforestazione dell’Amazzonia entro il 2030. L’impegno degli Stati a disporre risorse per lo sviluppo di economie sostenibili della foresta viva e per il sostegno ai popoli indigeni, oltre a non essere in alcun modo vincolante, urta con la realtà: dall’inizio del 2021 sono stati abbattuti oltre un milione e mezzo di alberi, secondo l'Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) la deforestazione legale nell'Amazzonia, solo nel 2021, è già vicina a 800.000 ettari (8.000 km2); il governo Bolsonaro ha da sempre favorito l’invasione delle terre abitate dai popoli indigeni da parte di gruppi criminali che si sono aperti la strada a pistolettate, senza scrupoli; e ha garantito lo sviluppo e il finanziamento di investimenti nella costruzione di strade, ferrovie e porti per aumentare la capacità logistica dei trasporti di prodotti e materie prime naturali e semilavorati, la cui esportazione è la principale causa della distruzione delle foreste e degli ecosistemi. È una sorta di autorizzazione a tagliare, poi si vedrà. Del polmone verde del mondo fino al 2030 rimarrà ben poco!
Il vero obiettivo della Cop26
La presenza alla Cop26 di diverse centinaia di rappresentanti delle principali multinazionali dell’energia prefigura, senza ombra di dubbio, lo scenario reale della conferenza di Glasgow e, più in generale, delle mani in cui è posta la soluzione della crisi climatica.
Cop26 è stata esattamente quello che avevano preannunciato, in tempi non sospetti, i giovani del movimento Fridays for future: «la festa del potere a cui partecipa chi ha contribuito a causare la crisi climatica».
I rappresentanti dei Paesi che, fino ad oggi, hanno subito maggiormente le conseguenze di questa crisi, sono - come avevamo anticipato già a luglio scorso (1) - rimasti a bocca asciutta: l’impegno in base al quale i Paesi ricchi avrebbero dovuto fornire cento miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo per finanziare la transizione energetica (impegno preso nel 2009 e mai rispettato) è stato sostituito dalla promessa di mobilitare circa cinquecento miliardi di dollari entro il 2025. Una cifra comunque insufficiente.
La Cop26 doveva solo placare le ansie di giustizia climatica delle classi subalterne con piani fasulli differiti al 2030 e sistemati in una più ampia operazione di greenwashing politico per consegnare al mercato e ai suoi attori principali la gestione dei ritocchi, senza disturbare la corsa incontrollata ai profitti, unico motore del modello capitalista.
Verso il collasso ambientale
I riflettori puntati sull’accordo raggiunto al termine di oltre due settimane di negoziati e le pesanti ombre sulla sua credibilità dopo che Cina e India hanno imposto di modificare il passaggio che chiedeva di eliminare l’uso del carbone, sostituendolo con un più generico ridurlo, hanno fatto perdere di vista la resa (non esplicita) sul contenimento della temperatura media globale.
Dopo Glasgow, l’obiettivo di contenere, entro la fine del secolo, le temperature globali al di sotto di 1,5°C risulta null’altro che un feticcio; quello che accadrà nel 2100 si trova presumibilmente all’interno di una forchetta che va dagli 1,8°C, (calcoli dell’Agenzia internazionale dell’energia) formulati sull’ipotesi che tutti i Paesi si attengano ai piani per la riduzione delle emissioni di gas serra che hanno presentato a Glasgow e i 2,7°C che, invece, minacciano le attuali politiche relative al riscaldamento globale.
Al di là di queste ipotesi, quello che sappiamo con certezza è che una temperatura media di 2,4°C comporterà un clima estremo generalizzato, con innalzamento del livello del mare, siccità, inondazioni, ondate di calore e violente tempeste, che causerebbero devastazioni in tutto il mondo, le cui vittime si troveranno nei ceti sociali più svantaggiati. Quello che stiamo vedendo di recente è solo una minacciosa anteprima.
Il vero passo avanti
Non è arrivato nulla di buono dallo Scottish Event Campus, dove si è svolta la Conferenza delle parti (Cop). Piuttosto, qualcosa di utile la si può registrare fuori da quei palazzi ed è rappresentato dai giovani di vari Paesi che hanno invaso le strade di Glasgow con mobilitazioni ed eventi di protesta.
Lo scriviamo da anni che la strada da intraprendere passa attraverso le proteste, le mobilitazioni dei giovani (2) e le lotte che devono vedere necessariamente uniti gli studenti con i lavoratori: in particolare quelli delle fabbriche che, con lo strumento dello sciopero, possono fermare le produzioni e ridurre alla ragione il sistema capitalista. I drammatici eventi degli ultimi anni, le condizioni di miseria sempre più diffuse nel mondo rappresentano la conferma che, per la sua stessa natura, il capitalismo è incompatibile con la tutela dell’ambiente e non possono essere i capitalisti o i loro rappresentanti a occuparsi del pianeta che essi stessi distruggono.
La crisi climatica e il conseguente collasso ambientale non troveranno soluzioni all’interno del sistema capitalista, pertanto nessuna Cop potrà consentire passi in avanti che, invece, sono nelle mani di quella classe che da sempre subisce lo sfruttamento e l’oppressione di questo modello economico.
Un passo in avanti concreto potrà venire dalla consapevolezza della classe operaia mondiale che non può esserci futuro senza porre fine al capitalismo e che occorre, nel più breve tempo possibile, costruire una società socialista, unica in grado di pianificare misure per correggere e prevenire il collasso ambientale.
Per questo motivo in tutto il mondo le sezioni della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale si rivolgono agli attivisti e ai giovani che si mobilitano sempre più intensamente contro la crisi climatica: facciamo loro appello a costruire insieme a noi quello strumento, il partito rivoluzionario, senza il quale sarà impossibile abbattere il capitalismo e difendere la vita su questo pianeta.
https://www.alternativacomunista.it/politica/nazionale/24-settembre-fermiamoli-con-lo-sciopero